Alcune osservazioni sul “Dictatus papae”

Queste righe sono la risposta a una e-mail contenente alcune domande che mi sono state poste dopo la lettura della tesi di laurea "L'impero e le due città. Storia universale, politica ed escatologia nella Chronica di Ottone di Frisinga".

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A pag. 22 del suo elaborato richiama in sequenza il Dictatus Papae, il sinodo di Worms, la scomunica dei vescovi filoimperiali e dello stesso imperatore. E ciò «applicando alla lettera il Dictatus».
È possibile sapere se il famoso Dictatus fu un provvedimento effettivamente emanato nelle forme canoniche e reso cogente erga omnes, almeno nelle intenzioni, così come ci è pervenuto, oppure se fu una sorta di indice dei titoli di un’opera giuridica con cui Gregorio intendeva sistemare la vertenza con l’Impero dando mandato ai canonisti come aveva fatto Giustiniano con i sui professori di diritto, oppure una ipotesi di soluzione su cui lavorare pervenendo anche a conclusioni più moderate?
A prescindere da quanto sopra, potrebbe dirsi che la scomunica dei vescovi e dell’Imperatore sarebbe stata, nel contesto, canonicamente possibile solo in forza al Dictatus ovvero anche senza il Dictatus trovando giustificazione in norme diverse e già vigenti?

La questione intorno al Dictatus papae è certamente complessa, c’è una bibliografia molto estesa e richiederebbe da solo un’intera tesi; per l’occasione ho ripreso qualche testo “al volo”, quindi senza pretese di esaustività.

Mi rendo conto che l’espressione «applicando alla lettera il Dictatus papae» che ho utilizzato a pag. 22 della mia tesi di laurea lascia spazio a fraintendimenti e andrebbe cambiata in «seguendo alla lettera i principi esposti nel Dictatus papae»: il Dictatus papae non fu infatti un documento ufficiale. Riprendendo una conferenza di Hubert Mordek del 19721 le ipotesi sulle origini del documento sono tre:

  • esisteva una raccolta già pronta da cui il papa poté trarre o compilare un indice (raccolta di cui però non c’è traccia);
  • fu un’elaborazione da modelli già esistenti nell’archivio romano;
  • fu una redazione originale del papa o di un collaboratore canonista a partire da passi autorevoli della tradizione come base giuridica per le successive azioni e decisioni.

Mordek propende per la terza ipotesi. Importante è anche la tesi avanzata da Giovanni Battista Borino2 e generalmente accettata che indica il Dictatus papae come un elenco di titoli o una capitulatio di una collezione canonica oppure ancora un elenco di rubriche da riempire poi con canoni o decretali. Questa tesi è sostenuta anche dal fatto che, prima dell’elezione al soglio pontificio, Ildebrando di Soana avesse già chiesto all’amico collaboratore Pier Damiani una collezione normativa canonica che però non venne mai realizzata, l’Opusculum quintum: De Privilegio Romanae Ecclesiae ad Hildebrandum; era quindi plausibile un nuovo tentativo.

Ampliando un po’ il discorso3,

Quei fermenti avevano radici lontane; si può dire ch’essi rappresentano il concretizzarsi finale delle aspirazioni riformistiche che già le decretali pseudoisidoriane avevano annunciate a metà del IX secolo.4

Tra il 1008 e il 1012 un’importante collezione canonica di Burcardo di Worms in 20 libri rappresenta la Chiesa ancora in una visione “imperiale” costantiniana ma con diversi elementi di novità che aprirono alle idee dei riformatori (lotta alla simonia, autonomia dei vescovi ecc.), rimanendo fonte utilizzata fino a Graziano.

Il legame tra la riforma sul piano morale e le innovazioni sul piano politico è presente poi nell’azione di quello che è considerato il “precursore” di Gregorio, Leone IX, che nel 1049 in un sinodo a Reims fece dichiarare che solo al pontefice romano spettava il titolo di universalis ecclesiae primas et apostolicus, si assicurò un collegio cardinalizio favorevole alla riforma e si prodigò per evitare successivi interventi dell’imperatore, pur in un clima di collaborazione con l’imperatore stesso, in quel momento Enrico III. Nel 1059 Niccolò II stabilì l’elezione del papa solo col voto dei cardinali, nuovo e importantissimo elemento di indipendenza della sede apostolica.

Nel frattempo Umberto di Silvacandida, creato cardinale nel 1050 da Leone IX, compilò la Collezione in 74 titoli (forse va datata più avanti, ma comunque prima del 1076) in cui, seppure questa sia un’opera moderata, sono presenti tutti gli elementi cari ai riformatori.

La collaborazione con il potere imperiale continuò fino a Gregorio VII, fino quando in Germania non prevalse la linea dei vescovi contrari alla linea intransigente del papa. Nel 1075 Gregorio condannò diversi vescovi e stabilì per i vescovi il divieto di ricevere cariche secolari; nel gennaio 1076 l’imperatore con i vescovi a lui fedeli condannarono a loro volta il papa5, che rispose appunto con la deposizione di Enrico IV (Tabacco è incerto sul fatto che più di “deposizione” questa fu piuttosto una “sospensione”).

Gregorio VII non agì quindi in forza di una norma codificata e universalmente accettata (Tabacco ricorda che diversi teologi e canonisti avanzarono obiezioni a riguardo, perché contrari all’assoluta dipendenza dei vescovi dalla sede romana); agisce sicuramente con alla base una certa tradizione canonistica che era stata elaborata in precedenza che a sua volta cercava conferme nella tradizione antica, considerata ben più autorevole. A questo proposito nel Registro di Gregorio VII, pubblicato nei Monumenta Germaniae Historica, subito dopo il Dictatus papae è riporatata una citazione dal Contra Iulianum di Agostino con apposite aggiunte (qui in corsivo) per corroborare la tesi ierocratica:

Non est ergo cur provoces ad Orientis antistites, quia et ipsi utique christiani sunt et utriusque partis terrarum fides ista Romana scilicet sola et una est, quia fides ista apostolica et christiana est.6

Nel trattare questa vicenda, così come molte altre, penso vada considerato quello che oggi è chiamato principio di effettività, definito dal giurista Sergio Maria Carbone «l’effettivo esercizio delle funzioni sovrane su un territorio e su una popolazione a prescindere dai criteri attraverso i quali si è addivenuti alla titolarità di tali funzioni sovrane e dalle modalità di loro esercizio». In altre parole, Gregorio VII poté agire in questo modo perché in quel momento e in quelle circostanze aveva la forza per farlo, pur non esercitando un diritto universalmente riconosciuto, portando Enrico IV a inginocchiarsi penitente a Canossa; al contrario pochi anni dopo, nel 1080, questa forza non l’aveva più quando l’imperatore fece eleggere un antipapa e giunse ad assediare Roma, nel 1084.

Un esempio contrario può invece essere Bonifacio VIII e la bolla Unam sanctam (1302): era un documento sulla carta valevole per tutto il mondo cristiano, la suprema affermazione della superiorità papale, ma Bonifacio nulla poté contro Filippo il Bello, che applicò pienamente il principio di effettività con la formulazione Rex Franciae imperator est et loco imperatoris in regno suo: fu infatti quello il tramonto dei “poteri universali”.

  1. MORDEK Hubert, Dictatus papae e Proprie auctoritates apostolice sedis, “Rivista di Storia della Chiesa in Italia”, a. 28, n. 1 (1974).
  2. BORINO Giovanni B., Un’ipotesi sul “Dictatus papae” di Gregorio VII, “Archivio della Società Romana di storia patria”, a. 67 (1944), p. 237-252.
  3. TABACCO Giovanni, Le ideologie politiche del medioevo, Torino, Einaudi, 2000, p. 55 ss. e CORTESE Ennio, Le grandi linee della Storia Giuridica Medievale, Roma, Il Cigno, 2000, p. 208 ss.
  4. Cortese, Le gandi linee, p. 208.
  5. CANTARELLA Glauco M., Il sole e la luna. La rivoluzione di Gregorio VII papa 1073-1085, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 156.
  6. AURELII AUGUSTINI Contra Iulianum, libro I, 4.14, trad. «Non c’è motivo pertanto che tu ti appelli ai vescovi dell’Oriente. Anch’essi sono cristiani e una sola è la fede, cioè solo quella romana, delle due parti della terra: la fede apostolica e cristiana».